Forsythe

Definerei il mio lavoro come una costruzione/decostruzione ». Mi concentro sul materiale, sui riferimenti, sugli elementi secondari di cui la danza è fatta. Per disperderle, le faccio proliferare. Non c’è più bisogno di un inizio, di un centro, di una fine. Creo delle sequenze, lavorando per piccoli brani.Compongo con i danzatori una frase, poi, come quando si lavora su un testo al computer, cambio delle parole, inserisco dei frammenti, ne tolgo altri. E’ come assemblare degli elementi. Considero la luce un effetto. I quadri del Rinascimento olandese mi hanno influenzato molto. Amo il chiaro-scuro. Le luci soffuse obbligano lo spettatore a maggiore attenzione. Ricerco le luci indirette.Amo rendere incerto ciò che metto in scena e sviluppare ciò che definisco come poetica della « scomparsa ». La penombra permette d’immaginare e lo spettatore si reputa troppo spesso onnipotente.Ma ne lui, né io possiamo insegnare nulla.Lo schermo televisivo permette di vedere tutto. E’ una forma d’autorità. Il palcoscenico conserva sempre i suoi misteri e dona un’altra percezione delle cose. « Benvenuti a ciò che credete di vedere!« 

Un coreografo ma anche un filosofo…Sì perché nelle sue opere coreografiche il pensiero si fonde con la danza, questa diviene filosofia e questa stessa si trasforma in velocità.

Questa una sintesi della poetica di William Forsythe, coreografo americano nato a New York nel 1949, definito da molti critici il più filosofo tra i coreografi.

E tra i personaggi del mondo della filosofia colui che ha suscitato sempre la sua ammirazione e che gli ha lasciato un’impronta fondamaentale per le sue creazioni è stato senz’altro Jacques Derrida.

A prima vista può sembrare difficile cercare di coglierne il tipo di legame e capire in che modo il filosofo francese abbia influenzato Forsythe.

Come ha ammesso lo stesso coreografo, così come con il suo decostruttivismo Derrida ha inciso sul pensiero filosofico degli ultimi vent’anni, allo stesso modo egli ha cercato di rinnovare il mondo della danza, partendo dal presupposto che al pari di un’idea, anche il gesto e il movimento sono a loro volta costituiti da pensiero e emozione. E da questo principio base egli ha lavorato e ancora oggi s’impegna intensamente per far continuare a vivere la danza al meglio. Una delle caratteristiche per esempio dei suoi spettacoli è quella di far danzare i suoi ballerini con le luci della penombra, un modo per catturare di più e stimolare l’immaginazione degli spettatori, dato che per lui l' »oscuro » non è altro che un cammino verso la luce, non un paradosso, né una provocazione. Si dice anche che Forsythe può essere considerato senza dubbio l’erede più fedele del balletto classico, ma in che modo allora?

E proprio in ciò il coreografo americano ha fatto suo il metodo di Jacques Derrida. Infatti il suo rapporto con la danza classica e con il suo vocabolario non è al pari di quello dello stile neoclassico, in cui il classico rivive nelle sue stesse linee fondamentali, ma piuttosto si tratta di una forma di fedeltà vissuta e interpretata in maniera turbolenta, ricca di interrogativi ma anche di tanta creatività.

Egli disarticola la tradizione, per farla rinascere nei suoi puzzle coreografici; svolge il suo lavoro come un ricercatore che ama e ha il suo credo nel « trovare ». L’impossibile diviene anche il suo campo di esplorazione, cercando proprio di ricercare e sperimentare nuove forme d’espressione, nuove « verità » dei corpi in movimento. Per questo ha posto sempre il limite delle sue esigenze artistiche molto in alto, non per orgoglio ma per passione. Infatti egli crede nella forza infinita della danza e i suoi balletti possono essere considerati degli atti di fede. Ma per nulla bisogna pensare alla sua danza come qualcosa di mistico, né tanto meno come un’occasione per renderle omaggio; anzi bisogna considerarla in tutta la sua forza brutale e violenta, proprio per far dire alla danza tutto ciò che ancora non ci ha mostrato.

La danza come oggetto di parola e di pensiero; per questo una delle frasi che il coreografo ama ripetere ai suoi spettatori è:  » Benvenuti a ciò che credete vedere ». E’ troppo legato ad un’arte così tanto rigorosa, e la sua attitudine per l’incerto è talmente forte da non cedere e mescolare nei suoi balletti elementi che potrebbero renderla evidente, quasi come per svelare i significati che le sue opere racchiudono. L’humor, la velocità, il chiaro-scuro, la violenza talvolta, sono i suoi modi per desacralizzare quest’arte e ancor più, di fronte alla sua maturità artistica, non disdegna affatto di mostrarsi fragile. Volto sempre alla ricerca di « un impossibile coreografico », egli non cessa mai di ripetere che né il coreografo, né lo spettatore sono onnipotenti, così come il suo amore per la filosofia tiene vivi la sua incessante ricerca per la verità e l’intensità dei sentimenti. E’ anche per questo che i suoi balletti a volte ci sconvolgono; i corpi dei danzatori appaiono e scompaiono, sembrano danzare in equilibrio. Ma sono in fondo come degli atti di libertà, che hanno il pregio di renderci ancora più liberi potendoli interpretare ciascuno con i propri occhi e nel frattempo interrogarci. Senz’altro un vero proprio choc emozionale i suoi balletti!

Note biografiche:

Dopo esser cresciuto artisticamente al Jeffrey Ballet di Stoccarda crea la sua prima opera coreografica nel 1976, Urlicht, che presenta alla Noverre Society. Nel 1980 lascia il Balletto di Stoccarda per dedicarsi totalmente alla coreografia. Nel 1983 Nureyev lo invita all’Opéra Comique e crea per i giovani solisti dell’Opéra France/Dance.

Nel 1984 diviene direttore del Balletto di Francoforte: è il periodo delle creazioni Artifact (1984), Steptext (1985), LDC (1985), Isabelle’s Dance, Pizza Girl, Skinny, Die Befragung des Robert Scott, Big White Baby Dog (1986), New Sleep, Same Old Story (1987). Sempre nel 1987 crea In The middle Somewhat elevated per l’Opéra di Parigi, è l’epoca della sintesi dei suoi tentativi di decostruzione del linguaggio classico. Per la sua compagnia crea The Loss of Small Detail (1987) Impressing the Czar, The Vile Parody of Address (1988), Enemy in the Figure, Slingerland, Limb’s Theorem (1989), The Second Detail (1991), As a Garden in this Setting, Alien /Action (1992), Eidos : Telos (1995), Endless House (1999). Contemporaneamente è invitato da altre compagnie a comporre nuove coreografie : crea New Sleep (1987), per il San Francisco Ballet, Behind the China Dogs (1988) et Herman Schmerman (1992) pour il New York City Ballet.

Nel 1999 lavora con la compagnia del Backenhaeimer Depot e diviene direttore del Theater am turm di Francoforte. Kammer/Kammer (2000), Woolf Phrase (2001), The Room as it was (2002), Decreation et Ricercar (2003), Wear et une creation collective We Live Here (2004). Dal 2004 dopo la chiusura di queste due strutture crea la sua compagnia, The Forsythe Company che oggi nelle sue attività si divide tra il Backenhaimer Depot e il Festspielhaus Hellerau di Dresda.

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